Sto leggendo "Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio", di Massimo Lolli. Ad un certo punto il protagonista, guardando la televisione, riassume una scena del film "Come eravamo" di Sidney Pollack, con Barbra Streisand e Robert Redford (è nella lista infinita che mai esaurirò dei film che devo vedere). Sono due studenti al college; lei è un'intellettuale, politicamente impegnata, che coltiva il sogno di diventare scrittrice; lui, un sempliciotto che non ha interesse per altro al di fuori dello sport. Un giorno entrambi devono sottoporre un racconto ad un professore. Lei ci spende le notti, lavora per settimane: lima, sistema, riscrive. Ma il giorno della presentazione il migliore racconto è quello di Robert, spontaneo, fresco, e viene letto davanti a tutti, con imbarazzo di lui e somma frustrazione di lei; in lacrime Barbra esce, e getta il suo racconto nella spazzatura.
Non ho mai creduto nel talento; credo nelle inclinazioni. Qualcuno ha detto che il vero genio consiste nel saper realizzare la propria aspirazione con il lavoro (ispirazione, traspirazione eccetera). è vero (forse), ma da questa equazione manca un fattore fondamentale: la spontaneità. La cosa più dura non è lavorare su di sè, ma riuscire a conservare la propria genuinità senza seppellirla sotto un lavoro, una gavetta, che è spesso dura e frustrante. Lavorare su se stessi senza lasciarsi snaturare, e quindi anche restare umili. Perchè questa fatica può trasformarsi anche in una forma di autoesaltazione: l'intellettuale che quando comincia a prendersi troppo sul serio, si monta la testa, si esalta. E si perde.
Una fatica che provochi sofferenza psicologica, che faccia venire i sudori freddi, è inutile e dannosa. Serva una fatica sana, che dia al momento dell'atto stesso la coscienza di un lavoro ben fatto, utile, solido come una sedia costruita da un artigiano. Una fatica buona.
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